VACANZE INTELLIGENTI

Arte e artisti nelle foto della Biennale di Venezia della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena

Mostra fotografica

a cura di Antonella Greco

in collaborazione con Vittorio Sgarbi

Promotori: Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, Milano Doc Festival, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena con la collaborazione del Fotomuseo Giuseppe Panini di Modena

6 settembre 2007 - 11 gennaio 2008

Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia "Leonardo da Vinci". Milano

Nel 2004 la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena ha acquisito oltre diecimila negativi provenienti da un’agenzia fotografica veneziana attiva dalla fine degli anni Quaranta alla seconda metà degli anni Ottanta, Cameraphoto, corrispondente di riviste prestigiose come Life, Time ed Epoca. Le immagini acquisite dalla Fondazione, scattate in occasione delle edizioni della Biennale di Venezia che si susseguirono dal 1948 al 1986, rievocano un’epoca centrale per l’arte contemporanea e ritraggono i protagonisti della scena artistica internazionale: tra gli altri, Giacometti, Picasso, Miró, Ernst, Richier, de Chirico, Braque, Dalí, Chagall, fino ai contemporanei Pascali, Kounellis, De Dominicis, Beuys. A poco meno di due anni da una prima mostra ospitata dalla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, le straordinarie immagini appartenenti alla Fondazione tornano alla ribalta, grazie a un nuovo progetto espositivo promosso nell’ambito della manifestazione Milano Doc Festival. Allestito tra due sedi, a Milano e a Roma, questo secondo evento si caratterizza per il taglio critico originale, che privilegia i ritratti di artisti italiani, e per la selezione di un nucleo di fotografie inedite, finora mai esposte al pubblico.

Andrea Landi

Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena

 

Intanto a Roma erano i tempi di Irene Brin (per gli amici, Maria Rossi) e Gaspero del Corso. Coppia snob quanto più possibile: lei notista di costume e redattrice di “Omnibus” negli anni Trenta, lui direttore dal ‘46 della Galleria più aggiornata della capitale, quell’Obelisco in via Sistina dove passarono gli artisti più affermati - o che si sarebbero affermati - degli anni Cinquanta, Burri e Rauschenberg compresi. Erano anche i tempi trionfali di Palma Bucarelli. Che aveva salvato dalla guerra le opere a lei affidate concentrandole a Caprarola. Che scriveva un diario esilarante dei suoi innumerevoli spasimanti che pubblicherà, ahinoi, solo dopo gli ottant’anni e la morte dei suoi protagonisti. Che chiedeva che la Galleria Nazionale di Valle Giulia fosse liberata dallo sconcio degli orti di guerra e le sue stanze dalle centinaia di casse contenenti i cimeli della Mostra della Rivoluzione fascista. A chi lo chiedeva? Ad uno tra i personaggi mitici in quegli anni del dopoguerra; a Giulio Carlo Argan, che dall’amministrazione delle Belle Arti, sezione V, le rispondeva – diversamente che nella vita - con toni lontani e burocratici. A Roma poi insegnava Lionello Venturi, méntore del collezionista Riccardo Gualino - anche lui lì in quel momento come proprietario della Lux film - e anche di generazioni di studenti, persino degli scapigliati di Forma1, come Achille Perilli. Erano ricomparsi i francesi, in riproduzione per ora, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, presto sarebbe arrivato Picasso. E, ma siamo già all’inizio del nuovo decennio, si preparava una grande mostra sull’Astrattismo. Astratti e figurativi, intanto, si davano battaglia. C’entrava anche un malinteso antifascismo, come nella rissa tra i giovani di Forma 1 e Cagli, davanti alla Galleria La Palma - questa sì tenuta da uno dei cervelli più brillanti del ventennio - quel Pietro Maria Bardi che presto lascerà l’Italia per fondare a San Paolo del Brasile il celeberrimo museo d’arte moderna (soldi del miliardario Assis Chateubriand, architettura di Lina Bo, sua moglie). Si riscoprivano Balla e il Futurismo, in mostra alla galleria “Origine”. Burri intanto, “guerriero di impossibili battaglie” nello stanzone della Salaria – come scrive Leonardo Sinisgalli, “cuce, brucia” i celeberrimi sacchi che, per ora, provocano solo scandali e inchieste parlamentari. A Villa Massimo dal ’48 c’è una colonia di artisti. Leoncillo, neocubista dai colori accesi (qualcuno mette in giro la leggenda che sia daltonico); Greco, ripiegato su una tecnica inesausta ed un inesausto desiderio di bellezza, la linguaccia velenosa di Mazzacurati, Rossi, Brunori e Guttuso, portavoce a quel tempo della politica del maggior partito di sinistra. Contro di lui (dirà: “mi sono allevato una serpe in seno”) la colonia libertaria e anarchica nata all’interno del suo stesso studio di via Margutta 5, attorno a Pietro Consagra che lo occupava sempre, al critico Emilio Villa che lo occupava saltuariamente e a Rodolfo Sonego spesso in visita, in miseria e ancora incerto tra il mestiere della pittura e l’attrazione fatale del cinema. Tutti loro parlando contro Guttuso, il partito e le contesse (attenzione dedicata alla moglie di Guttuso, Mimise Bezzi Scala) occupavano militarmente l’Osteria Menghi e ne abbellivano le pareti, come racconterà Ugo Pirro molto più tardi, tra passioni estreme ed estremi tradimenti alimentati dall’eccitazione della fine della guerra e dalla fame. Attorno ai giovani, lì presiedeva Mafai, ancora incerto tra neocubismo e le “corde”, con Turcato e Consagra, Dorazio e via via tutti gli altri, tra cui Scarpitta, il pazzo americano che costruiva automobili da esporre in galleria. Non tutti, ma molti di questi personaggi, con prestiti e notti in bianco in treni affollati, si ritrovano nel ‘48 a Venezia, per la Biennale che si riapre: c’è Leoncillo, magrissimo con gli occhi ipnotici, c’è Carrà, vecchio e sdentato, compare Severini assieme alla giovanissima Romana. C’è Carlo Levi, che svolazza - lèggere per credere un mirabile ritratto di Montanelli - con alcune delle sue incredibili cravatte di velluto. E soprattutto c’è lei, Palma. Algida ed elegantissima, unica donna in un mondo -quello dei critici - che sembra destinato ai maschi. Bianca ed eterea, ma cameratescamente seduta sui gradini della Biennale tra Rodolfo Pallucchini e uno dei salvatori della patria, definizione che risponde al viso serio e alla magnifica intelligenza di Carlo Ludovico Ragghianti. Anche di Palma, scortata dal fido Monelli, delinea il perfido Montanelli un magnifico ritratto. Mentre in un ristorante veneziano chiede con aria distante cose impossibili come in un film di Lubitsch: risotti allo champagne e altri nonnulla da indossatrice (“non lo avete? Portatemi un melone al porto” ). Questi e altri quadretti: Venturi a capotavola tra Guttuso e Mimise col cappello, Gio Ponti con la Lisa, la Bucarelli biancovestita che apre una Biennale (1950) unica donna, interamente circondata da decine di politici democristiani vestiti di nero o di grigio, Manzù col cane, Severini con Levi e così via non sono frutto dei nostri ricordi, ma appartengono ad uno straordinario archivio fotografico veneziano, recentemente acquisito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e in parte rimasto ancora inedito. Sono foto bellissime che ripercorrono la cultura del moderno nel nostro paese sul palcoscenico delle Biennali dal ’48 all’ 86. E se un centinaio di queste foto - le più glamorous, quelle colle modelle, quelle cogli artisti internazionali, quelle delle Biennali degli anni Settanta - sono state già esposte in una bella mostra alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia di poco tempo fa, rimane ancora inedito un panorama incredibile di foto che riguardano gli artisti italiani, le prime Biennali del dopoguerra, le visite degli architetti Le Corbusier e Louis Kahn, entrambi chiamati dallo IUAV per realizzare un’opera indimenticabile (Le Corbusier l’ospedale, Kahn il Padiglione Italia dei congressi) entrambi destinati ad essere delusi nella loro aspettativa, come già anni prima il profeta Frank Lloyd Wright in occasione del progetto del Masieri Memorial. Sembra quasi impossibile, dopo la mostra veneziana, scavare ancora nell’archivio e trovare scatti indimenticabili: de Chirico con Isabella Far, de Pisis in vestaglia a righe tra i suoi quadri, Marino appoggiato a un suo cavallo, Burri che tenta di incantare una collezionista americana, Fontana azzimato nel suo stretto vestito di sartoria (era un suo vezzo) che guarda perplesso i buchi che trafiggono i suoi concetti spaziali, il ’64 con la Pop Art osservata dubbiosamente da un bellissimo Mambor e da una Pitagora innamorata, il ’68 con gli studenti in piazza (riconoscibilissimo Francesco Dal Co, indistinguibile il giovane Cacciari)… Fino ad addentrarsi nelle Biennali degli anni Settanta, a seguire il sorriso ironico di Gino De Dominicis che si china su un novello Gulliver, lo scheletro di Pinocchio corredato di pattini a rotelle (l’aveva, peraltro, fatta grossa: appendendo in alto in una sala un mongoloide trentenne, giusto per non evitare le polemiche…); il gesto ispirato di Julian Beck; le farfalle in piazza, i tori meccanici… Non è una storia, non potrebbe esserlo: è un racconto di racconti, di artisti, di critici, di movimenti e di città. Presto verrà Alberto Sordi e presto scambieranno la sua cicciona consorte per un’installazione o una living sculpture alla maniera di Gilbert & George, ma intanto ci incantano questi bianco e neri fulgidi come non saranno mai più. Mai più Dalì danzerà con Ludmilla Tchérina, mai più una contadina con il fazzoletto in testa si fermerà perplessa a guardare un gallo che esce dai combine paintings di Rauschenberg. Mai più. Se non in questa mostra.

Antonella Greco